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Giovanni Armillotta presenta “Capire le rivolte arabe”

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Quello che segue è il testo dell’intervento pronunciato da Giovanni Armillotta (direttore della rivista “Africana”, frequente contributore alle due maggiori riviste italiane di geopolitica, “Limes” e “Eurasia”) giovedì 6 ottobre 2011, alle ore 21.00, presso il Circolo Vie Nuove di Firenze, in occasione della presentazione del libro dei nostri redattori Pietro Longo e Daniele Scalea Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario, edito dall’IsAG assieme a Avatar.

Per maggiori informazioni sulla serata, cliccare qui.

 

 

 

Inizierò l’esposizione del volume con un aneddoto. Nell’ottobre 2004 uscì il primo numero di «Eurasia» diretta da Tiberio Graziani, che in seguito s’è affermata – con «Limes», fondata nel 1993 e diretta da Lucio Caracciolo – come una delle due più importanti riviste di geopolitica. A dire il vero ci sono stati altri due tentativi di altrettanti periodici di tenore geopolitico, ma siccome entrambi non erano altro che l’espressione di sette politiche ben precise, essi hanno fallito. È patetico come la geopolitica possa essere considerata alla stregua di banchi di approfondimento di un “pensiero” promanante dalla “destra” o dalla “sinistra” o dai cattolici. Premetto, anzi postmetto, che a “pensiero”, “destra” e “sinistra” ho posto le virgolette. Ribaltando e parafrasando la nota frase di Ernesto Massi, perlomeno dalla seconda metà degli anni Ottanta del sec. XX, l’ignoranza della classe politica italiana ha fatto sì che la geopolitica essa né la praticasse e né la studiasse, delegando il tutto alla Casa Bianca.

La geopolitica non è la fonte delle scelte di politica estera da studiare con stantii parametri partitici e direi, in particolare, squallidi – considerando come opera la politica dei due versi (governativa e d’opposizione) nel nostro Paese – essa geopolitica si pone essenzialmente nei due parametri di valore che sono prassi e dottrine eurasiatista e atlantista. L’eurasiatista è la ricerca della fine della dipendenza dei popoli tellurocratici da quelli talassocratici, che ha definito le relazioni internazionali dalla nascita della potenza marinara inglese, sin da quando la Royal Navy di Elisabetta I sconfisse l’Armada Invencible di Filippo II nel 1588. Egemonia britannica che poi iniziò a declinare non dopo gli esiti della guerra d’indipendenza statunitense dal 1775 al 1783 che anzi rafforzò il “lago” Atlantico – ribellione, quella statunitense, scorrettamente definita rivoluzione, secondo i miei canoni di marxista non pentito che considera la struttura e la sovrastruttura come elementi fondanti dei rivolgimenti politici. La primazìa britannica prese a tramontare da quando gli Stati Uniti d’America uscirono, finalmente preparati al confronto militare, dal guscio della Dottrina Monroe (elaborata difensivamente nel 1823 contro la Santa Alleanza, e usata d’attacco in seguito), e con uno dei loro marchiani pretesti, affossarono i residui dell’Impero Spagnolo con la guerra contro Madrid, aprile-agosto 1898, la cosiddetta splendid little war.

Di conseguenza, oggi, la scelta atlantista, rispettabile e legittima al pari di quella eurasiatista, verte sul dover essere seguaci dell’“eccezionalismo messianico” statunitense sviluppatosi, appunto a partire dai primi insediamenti inglesi nell’America del Nord, nel sec. XVII, e poi del successivo periodo di espansionismo territoriale (riduzione del Messico al 25% della sua originale estensione, suddetta guerra ispano-americana, partecipazione nelle due guerre mondiali, con l’ultima in veste egemonica) fino agli anni della guerra fredda. Infine, dal trentennale periodo che va dalla Presidenza Reagan, 1981, all’11 settembre 2001. Non per nulla l’espressione “destino manifesto” degli Stati Uniti d’America fu coniata nel 1845 nel corso del conflitto che inquartò il Messico e fu poi riattualizzata, negli anni dell’Impero del Male comunista per poi riversarla contro nuovi nemici. Bush figlio si è messo in perfetta sintonia con questa “tendenza messianica” tradizionale, carica di fondamentalismo religioso antistorico, isolazionismo aggressivo in quanto rifiutante la visione paritetica del multilateralismo, teorie e pratiche a cuore sia dei repubblicani che dei democratici, facce diverse della stessa banconota. Lo stesso successore di Bush, e di conseguenza prodotto del grande capitale finanziario statunitense, si sta comportando come il precedessore.

Un’accurata inchiesta, uscita da una casa editrice fiorentina sino al 2005 (Ponte alle Grazie) già dal titolo demolisce le presunte differenze tra il partito repubblicano e quello democratico. Il libro Barack Obush, uscito il 7 luglio 2011, scritto da Giulietto Chiesa con Pino Cabras esplora senza paure tutti gli ultimi avvenimenti della politica internazionale. La manipolazione delle rivolte nel mondo arabo che ci riunisce nell’incontro di stasera; l’aggressione alla Libia, la perdita d’identità e valore dell’Europa in una sorta di silenziosa e rassegnata colonizzazione e trasformazione in melting pot di Serie B, di cui le ricchissime classi politiche sono insensibili; la tenzone con la Cina temuta da Washington sua “erede”, e le crisi dei debiti sovrani sono al centro dei grandi rivolgimenti in atto. Obama non è altro che uno dei migliori alleati dei piani dei neoconservatori. Gli stessi che sognano un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal protagonismo armato degli Stati Uniti, ampliatosi durante la presidenza di Barack Hussein. Un progetto cullato dalla famiglia Bush e portato avanti da Obama. Il democratico è riuscito però a vendersi molto bene dati i luoghi comuni di cui è il massimo portatore nello versione tradizionale: bianco cattivo (Bush figlio), nero buono (Obama), ma entrambi sventolanti lo stars and stripes del capitale finanziario e dell’imperialismo unipolare. Chiudo la parentesi con un esempio emblematico. Non avete mai fatto caso che l’unico Paese al mondo che non ha una ragione sociale e specifica, insomma un nome ristretto, sono proprio i cosiddetti Stati Uniti d’America? Mi spiego: ci sono gli Stati Uniti Messicani, grandi Federazioni, quali Russia, Canada (entrambe di maggior superficie degli Stati Uniti), Brasile, Australia, India, Argentina, Nigeria, come anche di più piccole – basti citare per tutte la Svizzera – però non esiste Stato alcuno che faccia riferimento a una ripartizione zonale che comprenda addirittura un Continente – Stati Uniti d’America. Per cui un domani se col NAFTA si cerca di inglobare – quali colonie commerciali e perché no, politiche? – Canada e Messico, e il resto, quel nome resterebbe immutato. Ed è nello stesso che vigono i propositi di dominio planetario.

A questo punto è bene procedere con l’aneddoto.

Sfogliando il Numero 1, Anno Primo, dell’Ottobre-Dicembre 2004 leggo la formazione del Consiglio dei Redattori di «Eurasia», composto di personalità ampiamente conosciute nel campo della geopolitica: direttore Tiberio Graziani, Aldo Braccio, Aleksandr Gel’evič Dugin, Martin A. Schwartz, Carlo Terracciano e poi notavo il nome di Daniele Scalea, di cui non sapevo assolutamente alcunché. Su quel numero tradusse dal russo il contributo di Dugin, e sul numero successivo (Gennaio 2005) esordì in firma con la recensione di Italia, Germania, e Giappone, scritto dal padre della geopolitica, il tedesco Karl Haushofer (Monaco di Baviera 1869-Berlino 1946); il suo primo articolo vero e proprio apparve sul N. 2/2005 dal titolo Ucraina, terra di confine.

Nonostante cercassi sue biografie, pensavo che non apparisse mai il proprio titolo di studio fra le schede biografiche della rivista, in quanto trattavasi probabilmente di un anzianissimo professore universitario dalla modestia aulica, dal linguaggio stranamente attuale, un vecchio docente forbito che conosceva il russo alla perfezione e tante altre cose. Un giorno parlando con un amico, di cui non faccio il nome, gli chiesi: «Ma mi dici un po’ dove insegna ’sto Scalea?». Mi fa l’interlocutore: «Ah! Ah! Ah! [risata], sta per laurearsi: è uno studente, infatti ha poco più di vent’anni». Vi prego di non osare immaginare come ci rimasi… «Vent’anni???… e quando ha iniziato a studiare, a sei?».

Per cui, complimentandomi con lui e Pietro Longo per il volume, affermo che – per le possibilità concessemi – l’ho consigliato alle cattedre di Afro-asiatici e Paesi islamici, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, cattedre che mi vedono quale uno dei componenti di commissione.

Scalea e Longo, rileggono i problemi della storia recente di tutti i Paesi arabi che si affacciano e non sul Mediterraneo (compresi Giordania e Iraq), chiedendosi, tra le altre cose, perché, malgrado l’allargamento dell’Unione Europea, l’Europa politica assolve nel Mediterraneo un ruolo così tenue, ossia non conta nulla, mentre, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti vi esercitano un’egemonia sempre più indiscussa? Come si spiega, in Medio Oriente e nei Paesi arabi, il sorgere e il diffondersi dell’islamismo radicale? Islamismo radicale che, ad esempio, in Siria – attualmente nel mirino di Stati Uniti e sodali (Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc.), è il primo, l’islamismo radicale, a schierarsi a favore della Hillary Clinton contro Baššār al-‘Asad? Nel senso come mai la Siria laica che sin dai tempi del padre di Baššār, Ḥāfiẓ, da sempre aveva combattuto finanche la Fratellanza musulmana siriana in quanto anti-baatista d’un tratto è da eliminare? Pure a questa fondamentale domanda, risponde il libro.

Come sostiene il prof. Domenico Losurdo, ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Urbino: terrorismo, fondamentalismo, antiamericanismo, odio contro l’Occidente, complicità con l’Islam e contro Israele: queste sono le accuse che l’impero statunitense brandisce come armi affilate. Chiunque non sia con gli Stati Uniti è antiamerikano, con la cappa, nemico della pace e della civiltà.

Questo è un libro, un testo di studio e di critica, che spazia in uno scenario molto ampio, e ci dà chiavi di lettura dei recenti fenomeni che stanno sconvolgendo l’arco mediterraneo meridionale col tentato spaccio delle rivolte antimperialiste e antineocolonialiste mediterranee, dello Yemen, del Bahrein e dell’Oman, in fattori richiamanti masse di musulmani che si sono e si stanno ribellando per auspicare, invece secondo certa stampa embedded-copia-e-incolla, forme di governo liberal-democratiche in cui trionfino gli dèi che vediamo adorare ogni giorno: capitalismo, abolizione dei frutti delle lotte operaie e religione del tecnologismo; o per meglio dirla: a favore dei valori pornografici e cocacolistici dell’Occidente ameriko-franco-britannico. Gli autori mi permetteranno un accenno che vada più lontano. Perché Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia stanno tornando in Nord Africa?

La storia che gli italiani ignorano è nota ai Governi europei, agli statunitensi e a tutti coloro che hanno studiato l’influenza dell’energia nucleare sulla politica internazionale negli ultimi sessanta anni. Se in Italia è apparsa marginale o irrilevante, le ragioni, quindi, vanno ricercate altrove. Ma occorre anzitutto ricordare brevemente i termini della questione. Nell’autunno del 1956, periodo ben analizzato nel volume, il governo francese, presieduto dal socialista Guy Mollet, tirò fuori dal cassetto un vecchio progetto, di cui si era segretamente discusso nei mesi precedenti, e propose a due partner europei (Germania e Italia) un’intesa tripartita per la collaborazione atomica in campo militare.

La proposta fu avanzata dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, in un momento in cui la Francia era impegnata nella guerra algerina e lamentava l’insensibilità della NATO per una questione che il Governo di Parigi considerava vitale, ma di cui agli Stati Uniti non importava niente.

Il riferimento a Suez conferma che il conflitto scatenato contro l’Egitto dalle due ex potenze europee con la complicità di Israele dopo la nazionalizzazione del Canale fu, insieme a quella di Corea, il primo grande spartiacque della politica internazionale nel secondo dopoguerra. Quando gli Stati Uniti, e pure l’Unione Sovietica – interessata a rientrare in Medio Oriente, dopo un esordio pro-israeliano – intervennero e imposero la cessazione delle ostilità, Gran Bretagna e Francia ebbero reazioni opposte.

A Londra i conservatori scelsero un nuovo primo ministro nella persona di Harold Macmillan, e dettero un colpo di acceleratore alla decolonizzazione formale, decidendo che il rapporto speciale come 51ª stella della bandiera statunitense era più importante dei loro vecchi sogni imperiali. La Francia conservò Guy Mollet alla testa del governo e decise testardamente che soltanto l’arma atomica le avrebbe permesso di non piegare la testa di fronte agli Stati Uniti. È così è stato sino all’avvento di Sarkozy, il quale liberandosi dell’indipendentismo gollista è tornato nella NATO, per poter riceve dalla Casa Bianca i vari permessi neocoloniali nel Mediterraneo. Ecco spiegato il fenomeno Libia, in poche parole. In pratica si spera che la fine degli Stati arabi laici, ma indipendenti (Libia e Siria) apra un varco nel quale entrerebbero i gruppi religiosi che avrebbero una crescente importanza. La scena, in maniera da dare all’Occidente il pretesto per entrare e “portare la democrazia”, però la loro. Ciò dimostra le vicende descritte in questo libro.

Ossia l’amministrazione guerrafondaia di Obama cerca di esorcizzare quanto accade sotto i suoi occhi nella penisola arabica e nel mondo arabo (rivolte – in maggioranza – sciite in Bahrein, Oman, Yemen e Arabia saudita, lenta ascesa dei Fratelli musulmani sunniti in Giordania, Egitto, nella stessa Libia conquistata, ancora moti soffocati in Tunisia e Algeria, espulsione e/o fuga degli ambasciatori israeliani da Ankara, Cairo e Amman) e cerca di esorcizzarlo per “riequilibrare” lo scacco matto nella regione, e continua a programmare la destabilizzazione della Siria.

E di rimando: i ribelli libici sono buoni. Gheddafi è cattivo. I ribelli siriani sono buoni, Asad è cattivo. Gli egiziani sono buoni, ma anche cattivi. I contestatori e dissidenti arabi del Bahrein, dell’Oman, dello Yemen e dell’Arabia Saudita sono cattivi.

Sono buoni, invece, i governi feudali di quegli Stati come pure buoni sono i governi al Maliqi, per l’Iraq e Karzai, per l’Afghanistan, imposti a mano armata dagli anglo-americani. Tunisini, algerini e marocchini, finché sono governati da regimi pro-Occidente sono naturalmente buoni. Se si rivoltano sono pericolosi e quindi cattivi.

Il brano riportato alle pagine 121-122, sviluppa il gioco di parola, ove si legge che: «[...] prende le mosse la logica di divisione del “Grande Medio Oriente” in regimi amici, o “moderati”, e regimi radicali e “fondamentalisti”. Al primo gruppo hanno fatto parte per tradizione il Marocco, la Tunisia, l’Egitto, la Giordania, al secondo gruppo invece la Libia, l’Algeria del FIS, la Siria e l’Iraq di Saddām Husayn. Lecitamente saremmo indotti a pensare che, in virtù di una certa affinità elettiva, i paesi della cosiddetta e monolitica “civiltà occidentale” siano stati più propensi a legarsi e stringere rapporti con i regimi laici, caratterizzati da politiche di marginalizzazione verso i movimenti islamici. Ma lo schema non regge se si considera che dei paesi nemici, addirittura del famoso “asse del male”, fa parte la Siria che, specie dopo il recente regime change in Iraq ed il conflitto in corso in Libia, resta l’unico paese arabo a tradizione socialista. Viceversa è notorio (e sottolineato a più riprese, tra gli altri, da Ahmed Rashid) come il regime del mullā ‘Umar, il “Principe dei Credenti” talibano, nel corso degli anni ’90 sia stato corteggiato da alcune cancellerie occidentali in merito a precisi progetti, poi abortiti, di approvvigionamento energetico. Anche l’esempio delle petro-monarchie del Golfo è significativo in tal senso. Il vero problema quindi non sembra essere il fantasma islamico che aleggia minaccioso per le strade di Damasco o di Algeri e Tripoli d’occidente, perché quello stesso “spettro” aleggia anche per le strade del Cairo, di Rabat e forse soprattutto di Amman».

Questo volume distrugge i luoghi comuni, le frasi fatte, le banalità di coloro che lavano i cervelli attraverso giornali e mass media, quelli con le palette in mano fra un concorso canoro, ed una trasmissione in cui “insegnano” chi è amico e chi no. È un libro completo e chiaro che tutti leggiamo senza rischiare di precipitare nell’erudizione, nell’eccesso di note, nella noia del particolarismo, grazie pure ad una cartografia curata con massima perizia ed eccellenza da Lorenzo Giovannini.

E per finire… un ricordo sull’Oman… la cui lotta di liberazione marxista-leninista degli anni Settanta era ricordata dalle trasmissioni di Radio Tirana, in lingue nazionale ed estere (italiano compreso) e da LP pubblicati in Francia [qui mostro il disco]. In Italia non se ne parlava.

Grazie.


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