Se le parole sono macigni, i numeri acquisiscono spesso un peso ulteriore e di sicuro maggiormente significativo.
Il fatto che Tel Aviv abbia accettato di scambiare il sergente Gilad Shalit tenuto in ostaggio da Hamas con ben 1.027 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è indice, infatti, dell’asimmetria che domina qualsiasi rapporto di forza tra israeliani e palestinesi, con i primi che dal 1957 ad oggi hanno rilasciato 13.509 prigionieri per ottenere la liberazione di 16 soldati da parte dei secondi.
Benjamin Netanyahu ha dimostrato di essere talmente consapevole di questa sproporzione da essersi permesso di rifiutare seccamente qualsiasi richiesta da parte di Hamas relativa alla liberazione del militare sequestrato nel giugno 2006, in attesa che giungesse il momento propizio.
Le autorità israeliane hanno infatti atteso che Abu Mazen presentasse alle Nazioni Unite la richiesta relativa al riconoscimento della Palestina entro i confini del 1967 (violati da Israele nel corso della Guerra dei Sei Giorni) per effettuare questa operazione tattica.
La pluridecennale strategia israeliana è infatti orientata a scongiurare l’internazionalizzazione di quella che viene eufemisticamente definita “questione palestinese” e al suo contenimento entro lo squilibrato ambito bilaterale sotto la faziosa supervisione statunitense.
Lo scambio di prigionieri concordato tra Israele ed Hamas potrebbe essere considerato l’altra faccia (diplomatica) della medaglia rispetto all’operazione “Cast Lead” (“Piombo Fuso”) sferrata il 27 dicembre 2008, poiché l’obiettivo strategico comune ad entrambe consiste nello sventare o quantomeno nell’indebolire l’asse Al Fatah – Hamas, al fine di dividere i palestinesi per evitare la formazione di una solida classe dirigente che tuteli gli interessi della popolazione rivolgendosi al più ampio scenario internazionale.
Intanto, Netanyahu getta una seria ipoteca sulla propria carriera politica effettuando un’operazione condivisa dalla stragrande maggioranza degli israeliani, ma ribadisce soprattutto, seppur implicitamente, il concetto espresso a suo tempo dall’influente funzionario Dov Weisglass, secondo cui la pace si otterrà “Quando i palestinesi diverranno finlandesi”.
Il mantenimento della situazione attuale, in altre parole, rientra perfettamente nei piani del Primo Ministro, dal momento che egli stesso ma soprattutto il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman nutrono una infima considerazione degli arabi, che secondo il loro parere non sarebbero altro che una mandria di tribù bellicose con cui non potrà mai essere ottenuta la pace per via diplomatica.
Lo dimostra la reazione di Tel Aviv dinnanzi alle potenti scosse telluriche che hanno scosso l’intero mondo arabo, che hanno gettato Israele in un profondo isolamento regionale e mondiale, aggravato in primo luogo dalla brusca inversione di rotta innestata dalla Turchia di Recep Tayyp Erdogan e dal radicale peggioramento dei rapporti con l’Egitto dopo la caduta del prezioso alleato Hosni Mubarak.
La mediazione egiziana aveva infatti contribuito nel 2008 ad ingannare la dirigenza di Hamas sfruttando la docile remissività di Al Fatah, e a provocare un’escalation di violenza che è poi deflagrata con “Piombo Fuso” e il blocco totale della Striscia di Gaza.
Non è da sottovalutare la possibilità che la terra bruciata che circonda Israele finisca per forzare la mano al governo di Tel Aviv, il quale con questa operazione ha accumulato un notevole consenso che secondo alcuni analisti potrebbe essere sfruttato per sferrare un attacco diretto all’Iran, considerato da molti una follia.
Difficile sapere se Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman la pensino allo stesso modo.
*Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie