Nei giorni 15 e 16 ottobre si è svolto a Zvenigorod, nei pressi di Mosca, il seminario universitario “Contro il mondo postmoderno”, organizzato dal prof. Aleksandr G. Dugin dell’Università di Stato di Mosca. Proponiamo qui il testo della relazione tenuta dal professor Claudio Mutti, redattore di “Eurasia” e membro del Direttivo dell’IsAG.
Gli dèi e l’Uno
“La dottrina dell’Unità, cioè l’affermazione secondo cui il Principio d’ogni esistenza è essenzialmente Uno, è – secondo René Guénon – un punto fondamentale comune a tutte le tradizioni ortodosse” (1). In altre parole, sempre secondo Guénon,
“Qualunque vera tradizione è essenzialmente monoteista; per usare un linguaggio più preciso, ogni tradizione afferma innanzitutto l’unità del Principio Supremo, da cui tutto deriva e da cui tutto dipende integralmente, ed è questa affermazione, nell’espressione che riveste specialmente nelle tradizioni a forma religiosa, a costituire il monoteismo propriamente detto” (2).
Accettando questi presupposti, non può esistere nessuna forma tradizionale autentica che sia propriamente politeistica, ossia che ammetta una pluralità di princìpi considerati completamente indipendenti. Difatti lo stesso Guénon afferma che il politeismo costituisce la “conseguenza di un’incomprensione di talune verità tradizionali, e precisamente di quelle che si riferiscono agli aspetti, o attributi, divini” (3); e prosegue dicendo che “simile incomprensione è sempre possibile in individui isolati e più o meno numerosi, ma la sua generalizzazione, che corrisponde allo stato di degenerazione estrema di una forma tradizionale in procinto di scomparire, è stata senza dubbio più rara di quanto abitualmente si crede” (4).
Se la legittimità di una forma tradizionale è strettamente determinata dalla sua coerenza con la dottrina dell’Unità, qual è allora il grado di validità delle forme tradizionali dell’antico mondo europeo, che generalmente ci presentano una pluralità di divinità?
Non potendo affrontare questo problema in tutta la sua estensione, mi limiterò a considerare il caso della civiltà greca, tipica per quanto riguarda la molteplicità di figure divine, aventi per lo più un carattere antropomorfo.
È noto che la prospettiva politeistica si trova superata dal pensiero filosofico, la quale esordisce nella ricerca di un’arché unitaria e culmina nell’individuazione di una causa causarum, chiamata Sommo Bene da Platone, Motore Immobile da Aristotele, Lògos dagli Stoici. Nella cultura latina, Cicerone definisce questa Causa prima come “il Dio sovrano, che regge tutto il mondo” (4bis).
Tuttavia in Grecia le attestazioni dell’Unità divina possono essere ritrovate anche in ambiti diversi da quello filosofico.
Nell’Iliade, ad esempio, compaiono tutti gli dèi e le dee dell’Olimpo, spesso in lotta fra loro, perché alcuni sono schierati a fianco degli Achei, altri a fianco dei Troiani; tuttavia non mancano, nella stessa Iliade, episodi che manifestano una visione religiosa in cui la molteplicità delle figure divine viene ricondotta ad un superiore, trascendente principio unitario.
Così, ad esempio, è nel libro VIII, dove troviamo un brano che costituisce il più antico documento greco relativo all’argomento che abbiamo affrontato. L’episodio è il seguente. Zeus convoca il concilio degli dèi sulla più alta cima dell’Olimpo, per enunciare solennemente il divieto di partecipare alla battaglia, divieto al quale tutti dovranno sottostare. Oltre a formulare una terribile minaccia di ritorsione nei confronti dell’eventuale trasgressore (sarebbe scagliato nelle profondità del Tartaro), Zeus lancia una sfida che intende mettere in evidenza la sua schiacciante superiorità su tutti gli dèi:
“Orsù dunque, provatevi, dèi, perché tutti possiate vedere;
fate pendere dal cielo una catena d’oro
e tutti quanti attaccatevi, dèi e dee:
ma non potrete tirare dal cielo sulla terra
Zeus, consigliere supremo, neppure se vi affaticaste moltissimo.
Invece, qualora io volessi tirare sul serio,
vi tirerei su con la terra e col mare,
e poi la catena a una cima d’Olimpo
legherei, e tutto rimarrebbe sospeso.
Tanto io sono al di sopra degli dèi e sono al di sopra degli uomini”. (5)
La superiorità del potere di Zeus sul potere di cui dispongono tutti gli dèi messi insieme simboleggia l’essenziale nullità della molteplicità degli enti divini di fronte all’unità principiale.
Ma il potere di Zeus, che pure è supremo in rapporto a quello degli altri dèi, trova il proprio limite nella volontà inflessibile della Moira. La subordinazione di Zeus, dio personale, a questa impersonale volontà risulta chiarissima nei passi dell’Iliade in cui il Padre degli dèi e degli uomini, per conoscere il decreto della Moira, deve pesare le sorti dei contendenti per mezzo di una bilancia cosmica. I passi più espliciti si trovano, rispettivamente, nel libro VIII (vv. 69-75) e nel libro XXII (vv. 209 segg.): nel primo vengono pesate le sorti collettive dei combattenti troiani ed achei, nel secondo le sorti individuali di Achille e di Ettore. Cito dal secondo passo:
“Allora il Padre tese la bilancia aurea
e vi mise le due Chere di morte crudele,
quella di Achille e quella di Ettore domatore di cavalli
e, presala per il punto mediano, la tenne sospesa: precipitò il giorno fatale di Ettore
e andò all’Ade. Lo abbandonò Febo Apollo”. (6)
Apollo abbandona Ettore al suo destino, Atena annuncia ad Achille che la vittoria sarà sua, Zeus rinuncia ad ogni proposito di scampare Ettore dalla morte. Tutti gli dèi si adeguano obbedienti alla volontà di una forza divina che li trascende.
Una analoga affermazione del supremo valore di Zeus è presente nella parodo dell’Agamennone di Eschilo, dove il Coro, composto da dodici vecchi, dopo avere rievocato l’inizio della spedizione contro la città di Priamo, innalza un inno solenne:
“Zeus, chiunque mai sia, se con tal nome
gli è caro esser chiamato,
con questo lo invoco.
Nulla posso paragonare a lui,
tutto ponderando,
tranne Zeus, se il vano peso derivante dall’angoscia
si deve veramente gettar via”. (7)
Il Coro dice che, per liberarsi dall’angoscia causata dalla predizione di Calcante, secondo cui grande sarebbe stato l’odio di Artemide verso gli Atridi, è necessario ricorrere a Zeus, soltanto a Zeus, perché non c’è nulla e nessuno che possa stare alla pari con lui.
Zeus è il nome al quale ricorrono anche gli Stoici, per designare il Logos che plasma ogni essere e gli dà anima e vita. Espressione della religiosità stoica è l’Inno a Zeus composto da Cleante di Asso (IV-III sec.), che esordisce esaltando Zeus come origine e sovrano di tutto ciò che esiste:
“Gloriosissimo tra gl’immortali, dio dai molti nomi, onnipotente sempre,
Zeus, principio della natura, Tu che governi tutto con la legge,
salve!” (8)
Appena il filosofo poeta – scrive Max Pohlenz – “invoca Zeus ‘dai molti nomi’, i fedeli sentono che Zeus, Logos, Physis, Pronoia, Heimarmene non sono se non i nomi diversi dell’unica divinità universale” (9).
Anche Arato di Soli (320-250), nel solenne esordio dei Fainómena, chiama col nome di Zeus il principio della manifestazione cosmica, concepito come spirito onnipresente in ogni angolo del mondo:
“Cominciamo da Zeus! Lui, in quanto mortali, noi non tralasciamo mai
di nominare. Piene di Zeus sono tutte le vie,
tutte le piazze degli uomini, pieno ne è il mare
e i porti; ed a Zeus in ogni circostanza tutti facciamo ricorso” (10).
Invece Plutarco, per simboleggiare l’Unità e Unicità divina, non ricorre alla figura divina di Zeus, ma a quella di Apollo. Nel dialogo Sulla E di Delfi, dove vengono proposte alcune interpretazioni della lettera E (epsilon) raffigurata all’ingresso del tempio delfico di Apollo, la spiegazione decisiva è quella del maestro di Plutarco, Ammonio, secondo il quale la E, essendo letta eî, coincide con la seconda persona singolare del presente di eimì e quindi significa “tu sei”. “Tu sei”, detto al dio che esorta l’uomo a conoscere se stesso (gnôthi sautòn era appunto una frase incisa sulla facciata del santuario delfico) è dunque un riconoscimento del dio quale Essere.
“Bisogna dunque rivolgersi a Lui e salutarlo, quando Lo si adora, in questo modo: ‘Tu sei’; oppure, per Zeus, dicendo, come alcuni tra gli antichi: ‘Sei Uno’. Infatti il divino non è pluralità, come ciascuno di noi, che è fatto di diecimila discordi passioni: cumulo multiforme, orgogliosa mescolanza. L’Essere, invece, è necessariamente Uno, così come l’Uno è necessariamente Essere. (…) Quindi sta bene al dio il primo dei Suoi nomi, nonché il secondo e il terzo. È Apollon, infatti, perché esclude la pluralità e nega il molteplice; è Ieios in quanto Uno ed Unico; Foibos, perché così era chiamato dagli antichi – non è vero? – tutto ciò che è puro e incontaminato”. (11)
Secondo un procedimento ermeneutico basato sul valore simbolico degli elementi di cui un vocabolo è costituito, il nome Apollon viene inteso come composto da a- privativo e da polýs, pollé, polý, “molto”; quindi: “senza molteplicità”. Il nome Ieîos è messo in rapporto con heîs, “uno”. Foîbos, etimologicamente connesso con fáos, “luce”, significa “lucente, puro”, quindi “non misto”. La Persona divina di Apollo, insomma, è simbolo del principio uno ed unico della manifestazione universale, è il Supremo Sé di tutto ciò che esiste.
Sulle tracce di Plutarco, Numenio di Apamea (II sec.) interpreta Délphios, epiteto di Apollo, come un antico vocabolo greco che significa “unico e solo” (12).
Il “monoteismo solare”
Nel quadro di quel “monoteismo solare” che con Aureliano (274 d. C.) diventa religione ufficiale dell’Impero romano, la figura di Apollo viene identificata con Helios, il cui stesso nome latino, Sol, riecheggia significativamente l’aggettivo solus, “unico”. All’epoca di Costantino le figure del dio solare – Apollo e Sol Invictus - risaltano sulle monete e nei rilievi dell’arco di trionfo.
È noto che nella fortuna del monoteismo solare nell’Impero romano ebbe un ruolo determinante un culto solare già molto diffuso fra i popoli del Mediterraneo orientale, specialmente in Siria. Depurato degli aspetti meno accettabili dallo spirito romano, il culto del cosiddetto “dio solare di Emesa”, nato fra le popolazioni nomadi dell’Arabia preislamica, diventò un culto romano di Stato e il dio Sole fu identificato con Giove Capitolino e con Apollo. Questo fatto, che René Guénon avrebbe potuto definire come “un provvidenziale intervento dell’Oriente” a favore di Roma, poté verificarsi per la ragione che il culto solare della tarda antichità rappresentava la riemergenza di una comune eredità primordiale.
Ed è lo stesso Guénon che conviene citare per quanto concerne il significato del simbolismo solare:
“Il sole si impone (…) come il simbolo per eccellenza del Principio Uno (Allâhu Ahad): l’Essere necessario, quello che, solo, è sufficiente a Se stesso nella Sua assoluta pienezza (Allâhu es-Samad), e dal quale dipendono interamente l’esistenza e la sussistenza di tutte le cose, le quali senza di Lui nulla sarebbero. Il ‘monoteismo’ – se con questa parola si può tradurre ‘Et-Tawhîd’, benché se ne restringa un poco il significato facendo pensare quasi esclusivamente ad un punto di vista esclusivamente religioso – ha dunque un carattere essenzialmente ‘solare’. (…) Non si potrebbe trovare un’immagine più vera dell’Unità che si dispiega nella molteplicità, senza cessare di essere se stessa e senza esserne influenzata, e che riconduce a se stessa, sempre secondo le apparenze, tale molteplicità; questa, in realtà, non è mai esistita, dato che non può esservi nulla fuori del Principio, a cui nulla può essere aggiunto e nulla sottratto, rappresentando Esso l’indivisibile totalità dell’Esistenza Unica” (13).
La dottrina del cosiddetto “monoteismo solare”, secondo cui Helios è l’ipostasi del Principio, mentre le numerose divinità del pantheon greco-romano sono solo suoi aspetti specifici e settoriali, si trova esposta nell’inno Al Re Helios (Eis tòn basiléa Hélion) dell’imperatore Flavio Claudio Giuliano. Il riferimento fondamentale è Platone. Giuliano cita un brano della Politèia (508B-C) dal quale risulta che il Sole (Hélios) è, nel mondo sensibile (aisthetòs) e visibile (oratòs), ciò che il Sommo Bene, sorgente trascendente dell’essere, è nel mondo intelligibile (noetòs); in altre parole: l’astro diurno non è che un riflesso di quel Sole metafisico che illumina e feconda il mondo delle essenze archetipiche, le platoniche “idee”. Ovvero, per dirla con Julius Evola: “Helios è il Sole, non come astro fisico divinificato ma come simbolo di luce metafisica e di potenza in un senso trascendente” (14). Ma tra il mondo intelligibile dell’Essere puro e il mondo delle forme corporee percepibili dalla vista fisica e dagli altri sensi s’interpone un terzo mondo: un mondo che viene definito “intellettuale” (noeròs), ossia dotato di intelligenza.
Ricordo per inciso che il teosofo islamico Mahmûd Qotboddîn Shîrâzî (1237-1311) riassume la dottrina dei tre mondi dicendo che Platone e gli altri sapienti dell’antica Grecia “professavano l’esistenza di un doppio universo: da un lato l’universo del puro soprasensibile, che comprende il mondo della Divinità e il mondo delle Intelligenze angeliche; dall’altro, il mondo delle Forme materiali, vale a dire il mondo delle Sfere celesti e degli Elementi e, tra l’uno e l’altro mondo, il mondo delle Forme immaginali autonome” (15).
Ipostasi del Principio supremo (“figlio dell’Uno”) al centro di questo mondo mediano, Helios vi svolge una funzione mediatrice, coordinatrice e unificatrice in rapporto alle cause intellettuali e demiurgiche, partecipando sia dell’unità del Principio trascendente sia della molteplicità contingente della manifestazione fenomenica. La sua posizione è dunque la più centrale che possa essere concepita e giustifica il titolo di Re che gli viene riconosciuto. In termini teologici: tutti gli dèi dipendono dalla luce di Helios, che è l’unico a non essere sottoposto alla necessità costrittiva (anánke) di Zeus, con il quale, in realtà, egli si identifica.
Sulla scia di Henry Corbin, che include i “neoplatonici cosiddetti tardivi” (e quindi anche l’imperatore Giuliano) tra le coraniche Genti del Libro (16), uno studioso italiano ha suggerito che Helios “equivale a ciò che nell’Islam è chiamato an-nûr min ‘amri-llâh, ‘la luce che procede dal comando divino’”, per cui la divinità solare “non è altra cosa da quella ‘nicchia delle luci’ dalla quale (…) è attinta ogni sapienza” (17).
Giuliano viene poi a trattare dei poteri (dynámeiai) e delle energie (enérgheiai) di Helios, cioè, rispettivamente, delle sue potenzialità e delle sue attività in relazione ai tre mondi. L’aspetto più considerevole di questa parte dell’Inno (143b-152a) consiste nel tentativo di ricondurre la molteplicità degli dèi ad una Unità principiale rappresentata per l’appunto da Helios, cosicché le varie figure divine ci appaiono come suoi aspetti, ovvero come Nomi corrispondenti alle sue innumerevoli qualità. Una dottrina analoga, d’altronde, era stata formulata da Diogene Laerzio, il quale interpretava Zeus, Atena, Era, Efesto, Posidone, Demetra come appellativi corrispondenti ai “modi della potenza” dell’unico Dio (18).
In Helios, dunque, confluisce il potere demiurgico di Zeus; né d’altronde esiste alcuna reale differenza tra i due. Atena Prónoia è scaturita, nella sua integralità, dalla totalità di Helios; essendo l’intelligenza perfetta di Helios, essa riunisce gli dèi che lo circondano e realizza l’unione con lui. Afrodite rappresenta la fusione degli dèi celesti, l’amore e l’armonia che caratterizzano la loro essenziale unità. Ma soprattutto, in quanto racchiude in sé i principi della più armonica sintesi intellettuale, Helios viene identificato con Apollo, il quale, date le sue qualità fondamentali di immutabilità, perfezione, eternità, eccellenza intellettuale, è la personificazione dell’unità divina esprimentesi come intelligenza pura ed assoluta.
L’ultima parte dell’Inno contiene una rassegna dei doni e dei benefici dispensati da Helios al genere umano, che da lui trae origine e da lui riceve sostentamento. Padre di Dioniso e signore delle Muse, Helios elargisce agli uomini ogni saggezza; ispiratore di Apollo, di Asclepio, di Afrodite e di Atena, egli è il legislatore della comunità; infine è lui, Helios, il vero fondatore e protettore di Roma. È dunque a questo dio, creatore della sua anima immortale, che Giuliano rivolge la richiesta di accordare all’Urbe un’esistenza parimenti immortale, identificando così “non solo la sua missione personale sulla terra, ma anche la sua salvezza spirituale, con la prosperità dell’Impero” (19).
Il discorso è suggellato da una preghiera finale a Helios, la terza contenuta nell’Inno: che il Re dell’universo conceda al suo devoto celebrante una vita virtuosa e un più perfetto sapere e, nell’ora suprema, lo faccia ascendere in alto fino a Sé.
Giuliano dedica l’Inno al Re Helios a quel Salustio che nel trattatello Sugli dèi e il mondo formula la dottrina dell’Unità nei termini seguenti: “La causa prima conviene che sia una, poiché l’unità precede ogni molteplicità e supera tutto in potenza e bontà; e per questo è necessario che tutto partecipi di essa, poiché nient’altro la ostacolerà, data la sua potenza, né la allontanerà, data la sua bontà” (20).
Considerata in un quadro storico, la teologia solare di Giuliano si colloca in una fase matura del neoplatonismo, nella quale i cardini dottrinali di questo movimento spirituale si trovano già definitivamente fissati e consolidati. Se il fondatore della scuola, Plotino (204-270), aveva riconosciuto nell’Uno il principio dell’essere ed il centro della possibilità universale, il suo successore Porfirio di Tiro (233-305) aveva dedicato alla teologia solare un trattato Sul Sole, andato perduto (21). Ne sussiste una citazione nei Saturnalia, là dove Macrobio, riconducendo al principio solare Apollo, Libero, Marte e Mercurio, Saturno e Giove, dice che secondo Porfirio “Minerva è la forza del Sole che dà prudenza alle menti umane” (22). D’altronde nel trattato Sulla filosofia degli oracoli (23), Porfirio aveva citato un responso apollineo secondo il quale c’è un solo dio, Aiòn (“Eternità”), mentre gli altri dèi non sono altro che i suoi angeli.
Dopo Giuliano, è possibile seguire la tradizione “solare” fino a Proclo (410-485), autore fra l’altro di un Inno a Helios in cui Helios è invocato come “re del fuoco intellettuale” (pyròs noeroû basileû, v. 1) e “immagine del dio generatore di tutte le cose” (eikôn panghenétao theoû, v. 34) (24), cioè come epifania del Dio Supremo. Per quanto riguarda la pluralità degli dèi della religione, Proclo la risolve riportandola all’Uno; e l’Uno è Dio, perché, argomenta, il Bene e l’Uno sono la stessa cosa e il Bene si identifica con Dio (25). Si capisce allora perché Henry Corbin abbia caldamente auspicato il confronto tra la teologia di Proclo e le dottrine dello Pseudodionigi e dello Shaykh al-Akbar. In particolare, egli scrive, sarebbe molto istruttiva
“una comparazione approfondita fra la teoria dei Nomi divini e delle teofanie che sono i Signori divini: voglio dire dal parallelismo tra Ibn ‘Arabî da una parte – l’ineffabilità del Dio, che è Signore dei Signori e le molteplici teofanie costituite dallan gerarchia dei Nomi divini – e Proclo dall’altra – la gerarchia che si origina nell’enade delle enadi manifestata da queste stesse enadi, e che si propaga attraverso tutti i gradi delle gerarchie dell’essere” (26).
Ma quella che è stata definita “l’ultima attestazione del sincretismo solare in Occidente” (27) è la preghiera di Filologia al Sole (28), “documento notevole della ‘teologia solare’ del tardo neoplatonismo” (29) dovuto ad un contemporaneo di Proclo, Marziano Capella. Ultima attestazione, perché verso il 531, con la fuga in Persia dello Scolarca Damascio (470-544) e degli altri neoplatonici, la tradizione “solare” continuerà la propria esistenza negli stessi luoghi dai quali si era irradiato, diffondendosi in tutta l’Europa, il culto di Mithra.
A parere di Franz Altheim, la teologia solare elaborata dai neoplatonici non fu priva di relazione col monoteismo islamico, tutt’altro. “Il messaggio di Maometto – egli scrive – era infatti incentrato sul concetto di unità ed escludeva che la divinità potesse avere un ‘compagno’, ricalcando così le orme degli antecedenti e conterranei Neoplatonici e Monofisiti. L’impeto religioso del Profeta riuscì quindi a far emergere con accresciuta forza ciò che prima di lui altri avevano sentito e anelato” (30).
1. R. Guénon, Aperçus sur l’ésotérisme islamique et le taoïsme, Gallimard, Paris 1973, p. 38.
2. R. Guénon, Monothéisme et angélologie, “Études Traditionnelles”, n. 255, ott.-nov. 1946.
3. Ibidem.
4. Ibidem.
4bis. “Princeps deus, qui omnem mundum regit” (Cicerone, Somnium Scipionis, 3).
5. Omero, Iliade, VIII, 23-27. (La traduzione di questo brano è stata eseguita da me, così come quelle degli altri testi greci e latini, ad eccezione del passo di Proclo che riportato nella versione di Michele Losacco).
6. Omero, Iliade, XXII, 209-213.
7. Eschilo, Agamennone, 160-166.
8. Cleante, Inno a Zeus, I Powell, 1-3.
9. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1967, I, p. 218.
10. Arato, Fenomeni, 1-4.
11. Plutarco, De E apud Delphos, 393 b-c.
12. “Apóllona Délphion vocant, quod (…), ut Numenio placet, quasi unum et solum. Ait enim prisca Graecorum lingua délphon unum vocari” (Macrobio, Saturnalia, I, 17, 65).
13. R. Guénon, Et-Tawhîd, “Le Voile d’Isis”, luglio 1930.
14. J. Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, p. 140.
15. H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 1986, p. 140.
16. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 70.
17. R. Billi, L’Asino e il Leone. Metafisica e Politica nell’opera dell’Imperatore Giuliano, tesi di laurea, Università di Parma, anno acc. 1989-1990, pp. 79-80.
18. Diogene Laerzio, VII, 147 (Stoicorum Veterum Fragmenta, II, fr. 1021).
19. M. Mazza, Filosofia religiosa ed “Imperium” in Giuliano, in: AA. VV., Giuliano Imperatore, Atti del Convegno della S.I.S.A.C. (Messina, 3 aprile 1984), a cura di B. Gentili, QuattroVenti, Urbino 1986, p. 90.
20. Sallustio, Sugli dèi e il mondo, a cura di C. Mutti, Edizioni di Ar, 2a ed., Padova 1993, pp. 27-28.
21. Il trattato di Porfirio è citato da Servio (Commento alle Ecloghe, V, 66) ed è forse da identificarsi col trattato Sui nomi divini; o, forse, faceva parte della Filosofia degli oracoli. Cfr. G. Heuten, Le “Soleil” de Porphyre, in Mélanges F. Cumont, I, Bruxelles 1936, p. 253 sgg.
22. “et Porphyrius testatur Minervam esse virtutem Solis quae humanis mentibus prudentiam subministrat” (Macrobio, op. cit., I, 17, 70).
23. G. Wolff (a cura di), Porphyrii de philosophia ex oraculis haurienda librorum reliquiae, Springer, Berlin 1866.
24. Proclo, Inni, a cura di D. Giordano, Fussi-Sansoni, Firenze 1957, pp. 20-25.
25. Proclo, Elementi di teologia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1983, pp. 94-95.
26. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 8.
27. R. Turcan, Martianus Capella et Jamblique, “Revue des Études Latins”, 36, 1958, p. 249.
28. Marziano Capella, De nuptiis, II, 185-193.
29. Martiani Capellae De nuptiis Philologiae et Mercurii liber secundus, Introduzione, traduzione e commento di L. Lenaz, Liviana, Padova 1975, p. 46.
30. F. Altheim, Deus invictus. Le religioni e la fine del mondo antico, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, pp. 115-116.